Intervista con la Storia: Cecilia Mangini a IsReal 2017

Dicono “il tempo è denaro”, e dicono una menzogna. Il tempo è ricordo, e il ricordo è il passato che si accresce avanzando. Cecilia Mangini lo sa. Cecilia è una ragazza di novant’anni. Ne ha venticinque nell’estate del 1952 – appena sette anni dopo la guerra – quando affronta il primo volo. Condotta dal ricordo omerico di “un’isola circondata da pietre galleggianti” trova approdo a Lipari. Porta con se solo una macchina fotografica, una di quelle reflex – la Zeiss SuperIkonta 6×6 – che fanno apparire d’un tratto le immagini nella camera oscura, come miraggi. Scatta fotografie oniriche, in un’estate “dal biancore assoluto, come in uno stato di ubriachezza”.

I soggetti sono donne, bambini, ragazzi, mai un adulto. E’ iniziata la modernità: l’homo faber si è fatto migrante, “sa dove sta andando? In giro per il mondo, ma soprattutto in Australia”. Le cave di pomice sono un set neorealista a cielo aperto, che Cecilia attraversa in lungo e in largo, concedendosi tutti i punti di vista possibili, come un consumato professionista. E’ solo una ragazza. Da Lipari a Panarea il passo è breve: un’altra isola, un altro mondo, il tema ricorrente sono i ragazzi del luogo, tutti più o meno coinvolti nel quotidiano ménage casa-lavoro-famiglia. Ragazzi pastori, pescatori, che attendono alle faccende domestiche, alle incombenze del minuscolo indotto turistico. E’ una scoperta che abbaglia. “Torno a Roma emozionata”, racconta. “Ho visto un mondo che nella propaganda del Dopoguerra non esiste. Quando quelle immagini compaiono come d’incanto, una dietro l’altra, capisco una cosa: io sono una fotografa”.

Oggi quelle diapositive riemergono dall’oblio che le ha ammantate per sessant’anni: l’autrice le ha regalate per le collezioni dell’Isre, l’Istituto superiore regionale etnografico, e dal 21 settembre (ore 18,30) al Museo del costume di Nuoro saranno fruibili al pubblico in una mostra, “Isole”. “Torno in Sardegna dopo un’assenza lunga quasi sessant’anni, ma di quest’isola non ho dimenticato nulla” – spiega, facendo roteare uno sguardo incredibilmente vivo. Conserva nella memoria ogni istante vissuto come una diapositiva: è il suo ricordo la mostra più affascinante.

“Arrivai a Olbia alla fine degli anni Cinquanta, chiamata dall’Istituto Luce che mi affidò una commessa dell’Anas: stavano realizzando dei documentari sulla nascita delle strade in Italia, a me affidarono le riprese della Carlo Felice. Ho impresso il primo sguardo che mi si posò addosso: ero ancora “il continente”. Quello sguardo di una fierezza radicata era figlio non tanto dell’ isolamento, quanto di una totale, assoluta libertà. In Sardegna non scattai fotografie – ero molto concentrata sulla narrazione– ma conservo moltissime immagini: sono impresse, ieri come oggi, nella mia memoria. Uno stagno di un Molentargius non ancora Parco, popolato di pescatori solitari: uomini soli carichi d’amore. Una giornata di febbraio, quando arrivata dall’inverno romano a Nuoro trovai la primavera. Era piazza Satta, un luogo metafisico, che mescolava realtà e finzione: un prato in technicolor. Li vede gli asfodeli? Li sente i profumi? Bene: io ho ancora negli occhi i volti di quei ragazzi, i loro occhi infuocati che giocavano all’aperto. Erano già così moderni: felici di tutto, anche di essere ripresi.

A Bolotana scoprii che la vita ti dà due possibilità, quando sei isolato: puoi decidere per l’abbandono, oppure per la rivolta. E qui la gente reagiva. Scoprii che nell’abbandono i sardi si sentivano diversi, e fieri di questa alterità. Se dovessi usare un aggettivo direi: orgogliosi. Girai un documentario per la Rai, “Domani vincerò”, in una palestra spontanea nata in un paese. Sa cos’era? Era una catena di montaggio della felicità.

Oggi, domanda? Oggi le isole non sono più quelle di allora: sono state rovesciate come un guanto. In Sardegna arrivano turisti come onde, la considerano – a ragione – un paradiso terrestre. Panarea e Lipari sono diventate i pied-à-terre dei miliardari di ogni mondo. Però… però per fortuna – per un miracolo – questo cambiamento non ha compromesso l’anima più profonda delle isole: la bellezza del paesaggio. Forse lei non ne è del tutto consapevole, ma la sua isola è uno dei più bei posti del mondo. Per questo sono felice di averci rimesso piede: tornare per me è stata una trasfusione di energia”.