Ciò che non si vede, intervista a Giovanni Columbu

Come nasce l’idea di un film come questo, in cui si mescolano testimonianze documentarie sull’argomento delle surbiles e momenti di messa in scena con attori professionisti e non?

L’idea del film nasce da racconti sentiti, anche di sfuggita, quando ero bambino, racconti che hanno lasciato dentro di me una traccia duratura. E insieme ai racconti anche oggetti, come quelli che vedevo nella casa dei miei nonni: una falce dentata, treppiedi rovesciati, rosari, grani di semola… Tutti portatori di una pluralità di elementi in grado di richiamare l’attenzione delle surbiles e indurle a una conta che, stando alla tradizione, non può andare oltre il numero sette, dunque in grado di produrre uno spaesamento e autoincantamento che le distolga dalla loro azione di insidia e aggressione fino all’alba. Ho ritrovato gli stessi racconti durante il lavoro di preparazione per Visos, anche se in maniera marginale: tra i 150 sogni raccolti all’epoca ne ho scelto solo sette e ce n’erano diversi relativi alle surbiles che sono rimasti fuori. Ma quelle testimonianze che trenta anni fa erano numerose, spontanee e dettagliate, quando poi ho finalmente deciso di raccoglierle sembravano improvvisamente scomparse… e questa sorta di omertà intorno al tema mi ha spinto a indagare ancora più a fondo, perché c’era troppa determinazione a negare.

Le surbiles emergono come figure inquietanti ma non esclusivamente maligne. La loro connotazione è fortemente malinconica…

In origine mi sembravano solo figure afferenti al territorio del male ma realizzando il film ho scoperto che in realtà sono più complesse: sono innanzitutto vittime, perché scontano delle colpe; il male si insinua dentro di loro, sono donne buone che diventano cattive, loro malgrado. Sono figure da Nuovo Testamento, in questo senso: se l’Antico Testamento è fatto di contrapposizioni nette, e si invoca Dio perché colpisca e stermini i nostri nemici, nel Nuovo Testamento si dice “ama il tuo nemico”. Le surbiles non sanno nemmeno di essere cattive, un po’ come nel film di Carpenter, La cosa: il male alberga in noi e alla fine prende il sopravvento e ci trasforma. La surbile viene combattuta, allontanata, esorcizzata ma anche vista con una certa pietà dal resto della comunità.

Il film può essere visto come una replica speculare di Su Re: lì una figura positiva, Cristo, a cui nessuno crede, in un mondo popolato quasi da soli uomini; qui una figura dalle connotazioni negative, a cui credono in tanti, in un universo prettamente femminile. Dove sono gli uomini, in Surbiles, e perché non agiscono?

Gli uomini dormono, bevono, sembrano non sapere, non parlano. Ma non per un atteggiamento omertoso, quanto per la predisposizione dell’animo sardo che spinge a non dire, per dignità piuttosto che per omertà: l’accettazione di ciò che è misterioso e deve rimanere tale, ciò che non si vede e non si deve vedere. Una condizione dell’essere umano che viene accettata, in tutti i suoi limiti. È una caratteristica importante del mondo arcaico, che ha a che fare con una sapienza antica, e riporta alla voce che dice a Mosè: “tu potrai vedermi solo di spalle, da lontano”. Come nel caso del marito che sa della donna e non dice niente. C’è un gioco delle parti: gli uomini si defilano per lasciare spazio alle donne, una replica all’inverso di quando le donne stanno in silenzio pur sapendo, essendo al corrente delle gesta compiute dagli uomini.

Il film raggiunge il suo apice emotivo e visionario nel finale: un ballo tondo silenzioso, in una radura, quasi una trance spirituale in cui non si sente più la musica ma solo il rumore ritmico, ipnotico dei passi. Un ballo liberatorio, catartico, in cui si espiano le colpe alla luce di un fuoco che disperde nel cielo ceneri incandescenti. Dove è stato girato?

Nelle campagne di Ovodda. Quanto all’assenza della musica, in realtà li ho fatti ballare al suono della fisarmonica, ma una volta preso il ritmo – che non tutti conoscevano, perché alcuni, e direi almeno la metà, erano malati psichici, ospiti del centro di salute mentale di Cagliari e della Cooperativa Il mio mondo di Quartu Sant’Elena – hanno continuato a ballare. La rigidità del ballo tondo tradizionale sconfina così in qualcosa di meno composto, che lo fa sembrare quasi un sabba, e credo ciò dipenda proprio dalla presenza di questi malati, persone esterne a quel mondo, che prendono parte al ballo come elevazione verso il cielo.