Che fare quando il mondo è in fiamme?

La terza giornata dell’edizione 2019 di IsReal – Festival del cinema del reale, giovedì 9 maggio, propone due straordinarie retrospettive. La prima è quella dedicata a Roberto Minervini, regista David di Donatello per il miglior documentario 2016, nel giorno in cui esce nelle sale il suo ultimo documentario, “Che fare quando il mondo è in fiamme”. Presentato all’ultima Mostra del cinema di Venezia, il film è un viaggio nel Sud degli Stati Uniti, in lotta contro il razzismo.

Cosa fare quando il mondo è in fiamme? è l’ultima tappa di un percorso personale e professionale che ha portato Minervini, originario di Fonni (Nuoro) da parte di madre, da un’analisi esistenziale e intimista a un lavoro di denuncia più dichiaratamente politico. “Credo che in questo processo ci sia anche un aspetto molto personale, di crescita” spiega Minervini, che resterà a Nuoro fino a sabato 11 maggio. “Con il passare del tempo anche la mia “voce” è cresciuta, si è rafforzata, ho preso coraggio. H pensato di aver conquistato l’autorevolezza necessaria ad affrontare in maniera più decisa un discorso politico che mi stava molto a cuore. Sempre con l’idea di non farne un monologo ma di dare vita a una dialettica, se non addirittura a un dibattito”.

 

Il nuovo film racconta l’America profonda, della tensione e del conflitto – in particolare nella città di Houston. “Una roccaforte progressista dai confini territoriali molto estesi e circondata da fortissimi moti reazionari che oggi più che mai hanno preso voce, perché grazie alle manovre del presidente Trump i movimenti di estrema destra possono godere di libertà garantite loro dal Primo emendamento. La libertà di espressione si trasforma così facilmente nella libertà di odiare e nei cosiddetti “hate crimes” – spiega Minervini.

 

“L’uguaglianza non è un concetto flessibile, è qualcosa di ben preciso, lo dico perché negli Stati Uniti il concetto di uguaglianza è in qualche modo un concetto perverso. Per me, quindi, era necessario utilizzare questa seppur piccola visibilità mediatica guadagnata con i film precedenti per prendere una posizione ben precisa e testimoniare di quanto sta accadendo”.

 

Il regista spiega come è cambiato il suo modo di fare cinema, negli anni: “Oggi, anziché raccontare il passato per parlare del presente, racconto storie del presente nelle quali si riflette la storia più ampia. C’è sempre un momento, nella realizzazione dei miei film, in cui avviene una sorta di catarsi, perché il momento delle riprese, molto lungo, è preceduto da un’altrettanto lunga fase di frequentazione, uno stare insieme che trascende completamente il cinema e che costituisce la condizione necessaria per poter pensare di realizzare progetti cinematografici come i miei. Si tratta di un cinema che dev’essere vissuto, un cinema che esiste a prescindere dal cinema, mi verrebbe da dire. Il film è in bianco e nero. La ragione è legata all’idea di fornire un aspetto atemporale al racconto: non è la mia storia, quindi mi annullo, mi faccio da parte attraverso la sottrazione del colore, che a volte può essere molto invasivo. Era anche un modo per neutralizzare una concezione del colore proprio della cultura bianca europea, così come lo è il concetto di “bello” ad esso legato. Escludendo il colore abbiamo escluso anche una gerarchia del bello e del brutto, e della differenza, che non ci interessava”.

 

Nel finale del film la domanda che lo sottende (“Cosa fare quando il mondo è in fiamme?”) emerge con forza e trova risposte diverse: da una parte una madre che consiglia al figlio adolescente di essere remissivo e non reagire, dall’altra un gruppo di attivisti che è pronto allo scontro. Pare evidente come la domanda, posta nel titolo alla seconda persona singolare, sia rivolta a tutti: è un momento critico in cui ognuno deve decidere da che parte stare.

Qui, i primi minuti del film

https://www.repubblica.it/spettacoli/cinema/2019/05/07/news/_cosa_fare_quando_il_mondo_e_in_fiamme_-225523546/

 

La seconda retrospettiva inaugurata giovedì 9 maggio a IsReal è dedicata a Camilo Restrepo.
Con appena cinque cortometraggi realizzati in sette anni, Restrepo traccia un percorso unico che trascende i limiti del cinema documentario e sperimentale, partendo dai laboratori di sviluppo analogico e arrivando fino alle più importanti rassegne mondiali di Locarno e Cannes. Nato a Medellín (Colombia) nel 1975, intraprende gli studi d’arte, per poi trasferirsi nel 1999 a Parigi dove prosegue la formazione. Abbandonata la carriera pittorica, trova nella pellicola la propria dimensione espressiva: la fascinazione per l’immagine in movimento si coniuga con la dimensione artigianale de “L’Abominable”, fertile laboratorio analogico parigino dove i filmmaker indipendenti possono filmare, sviluppare ed elaborare il girato in pellicola in totale autonomia. La sua ricerca si lega in modo imprescindibile a questa cornice di indipendenza artistica: il laboratorio, come l’atelier del pittore, diviene il luogo ideale nel quale l’anima dell’artista e quella del filmmaker possono ricongiungersi. Uno spazio creativo privilegiato, in cui il processo di produzione non è più parcellizzato come accade nel cinema industriale tradizionale ma vive quotidianamente, in tutte le sue fasi, attraverso il lavoro fisico sulla materia filmica operato dal cineasta artigiano.

 

Tra i film in concorso, Kabul, City in the Wind di Aboozar Amini. Ritratti di un’infanzia complicata. (Documentario, Afghanistan, Giappone, Paesi Bassi, Germania, 2018). Alla guida di un vecchio autobus sgangherato, tra le macerie e la polvere del deserto, squarci di vita quotidiana, raccontati con ironia e dolcezza, nella città afghana ancora segnata dalla guerra e dal terrore talebano.

Qui il trailer: https://www.youtube.com/watch?v=s4WlCS0Ters