Conversazione con Lucien Castaing-Taylor e Véréna Paravel
Impossibile resistere alla potenza di Leviathan, alla forza di immagini che investono lo spettatore e lo risucchiano dentro uno scolo fognario per catapultarlo in un contesto materico instabile e pericolante, fatto di squame e frattaglie, schegge e liquami. Ecco un'opera che non finge la tridimensionalità ma la trova nella frenesia vorticante delle riprese, solo apparentemente lasciate in balia delle forze naturali. Si finisce gettati tra i marosi, investiti da correnti di stelle marine, scaricati sul ponte da reti colme di pesci, a ondeggiare in cambusa con occhi radenti al suolo, dietro le zampe di un gabbiano a caccia di cibo. Si perde la propria voce nel frastuono degli scrosci marini e del cigolare metallico dei tiranti, privi di ormeggio ed equilibrio, distanti da ogni riferimento terrestre.
Una pietra miliare del documentario contemporaneo, un film che sfugge qualunque categorizzazione e reca sotto l'apparente formalismo una visione del mondo (e del cinema) lucida e complessa. Una prova di resistenza, di sopravvivenza, che coinvolge tanto il corpo quanto lo sguardo, demistificando la vita in mare una volta per tutte: stritolati dal sistema, gli individui perdono la loro consistenza umana e finiscono inghiottiti in un universo lovecraftiano dove è persa ogni possibilità di dominio, e in cui qualcosa di molto più grande, e più forte, li governa.
Com'è nato il progetto? L'idea di partenza era distante dal risultato finale?
Lucien Castaing-Taylor: Abbiamo entrambi famiglie che hanno in qualche modo a che fare con la pesca, il mare e la navigazione, e volevamo fare un film che ci toccasse da vicino ma anche che ci costringesse ad allontanarci da casa, a Boston. Era necessario che presupponesse un’osservazione e una ricerca etnografica partecipativa intensa e di lunga durata, così abbiamo scelto il porto di New Bedford, a poco più di un'ora da Boston, la mitica città di Moby Dick, un tempo capitale mondiale della pesca alla balena e tuttora il più grande porto per la pesca negli Stati Uniti, nonostante abbia attraversato e stia attraversando periodi molto difficili, a causa del declino dell'industria peschiera e tessile. Abbiamo effettuato riprese per sei mesi, dentro e fuori dal porto, ma appena abbiamo cominciato a uscire sui pescherecci fino alla George's Bank, a circa duecento miglia dalla costa, in spedizioni che potevano durare anche due o tre settimane, abbiamo subito capito che la vita in mare ci interessava molto più di quella a terra. Era qualcosa con la quale avevamo molta meno familiarità. Ecco perché abbiamo deciso che il film avrebbe riguardato solo la parte marina e che non si sarebbe mai dovuta vedere la terra, e anche che dovesse essere scuro, così che gli spettatori perdessero il loro orientamento, allo stesso modo dei pescatori a bordo.
Ma quando avete capito che non vi interessava nemmeno mostrare i diversi punti di vista dei pescatori? Da un tema come questo ci si sarebbe potuti aspettare che il film riguardasse quello che essi fanno a bordo…
Véréna Paravel: Così come abbiamo deciso di non mostrare mai la terra, per concentrarci allo stesso tempo sul microcosmo della barca e sul macrocosmo di tutto ciò che la circondava, abbiamo anche deciso di relativizzare e metamorfosizzare il ruolo rivestito dai singoli attori umani e situarli in una più ampia ecologia cosmica in cui prendono il proprio, umile posto in mezzo a tutti gli altri elementi. Credo che la pesca sia l'attività più filmata e “romanticizzata” dall'invenzione della fotografia in avanti. E questo ha fatto sì che si producesse una rappresentazione molto limitata e distorta del coinvolgimento umano in mare, rappresentazione alla quale abbiamo opposto una forte resistenza. Il mare, l'aria, i pesci, i crostacei, le macchine e la barca sono costituenti importanti di quest'ecosfera allo stesso modo dell'umanità, e abbiamo lottato perché il film riflettesse questa coesistenza.
LCT: In generale, comunque, preferiamo intraprendere un lavoro senza avere una chiara idea in mente di quello che faremo o di ciò che troveremo. Non ci portiamo dietro soggetti o sceneggiature, ci bastano le idee ma quelle che alla fine funzionano sono frutto della nostra esperienza del mondo, o di ciò che vediamo attraverso la macchina da presa. Anche perché non ci interessa fare film per “dire qualcosa”, preferiamo lasciare un margine di incertezza, uno spazio aperto al caso, all'accidente anche brutale, qualcosa che fugga il nostro controllo e le nostre intenzioni o imposizioni.
E per quanto riguarda le modalità di ripresa: avevate deciso fin dall'inizio di utilizzare le GoPro?
LCT: No, in principio avevamo molte macchine diverse a disposizione, comprese quelle più grandi e convenzionali, come le EX1 e EX3. Ma durante il viaggio sono finite in mare, così siamo passati a quelle più piccole.
VP: A parte le macchine non abbiamo perso granché, ad ogni modo, perché c’erano solo riprese della terraferma, che non avremmo comunque utilizzato.
LCT: La vera differenza tra le macchine HD e le GoPro non ha tanto a che fare con la qualità, perché considero l'estrema risoluzione delle HD estremamente irreale, e anche se la profondità di campo è maggiore questa non esclude una sorta di piattezza, mentre le GoPro possiedono una specificità cinematica superiore, l'immagine che producono è più vicina a quella della pellicola che a quella del video: il rumore, l'astrazione e la figuratività che riproducono ricorda la grana della pellicola, il caratteristico realismo astratto della macchina da presa.
VP: In ogni caso ci teniamo a sconfessare la prospettiva tecnologica secondo la quale non ci sia stata alcuna direzione registica nelle riprese, come se fossero state frutto di un atto puramente meccanicistico e bastasse posizionare le videocamere da qualche parte e lasciare che facciano il lavoro al posto tuo. Delle 130 inquadrature che compongono il film solo 4 sono realizzate senza che le videocamere fossero legate o tenute al nostro corpo o a quello dei pescatori. Le riprese a filo d'acqua sono state realizzate con le GoPro attaccate a dei bastoni tenuti da noi. In quel caso, evidentemente, non avevamo un viewfinder attraverso il quale guardare ciò che veniva ripreso, ma lo immaginavamo, e rispondevamo fisicamente allo stimolo esterno reggendo il bastone.
Nel caso delle riprese effettuate dai pescatori, avete dato loro informazioni o direttive nella loro veste di "operatori"?
LCT: No. Volevamo che ad emergere fosse la loro visione del mondo – così come in altri momenti ci interessava ricercare quella del pesce. Non volevamo né farli diventare operatori né pensavamo fosse necessario o lecito condividere con loro l'autorialità del lavoro.
VP: Bisogna pensare che la loro preoccupazione primaria è sempre e comunque quella di sopravvivere al viaggio: in ogni occasione potrebbero venire scaraventati giù dalla barca e ritrovarsi in mare aperto, tra le onde. Non hanno avuto modo di pensare a quello che filmavano, e ciò corrispondeva esattamente a una nostra intenzione, perché rappresenta la vera forza delle immagini, il loro carattere più viscerale.
LCT: Leviathan è un gesto, una reazione fisica ed emotiva a una precisa condizione ed esperienza, potremo dire la traduzione estetica di una crisi epilettica.
Si può dire che il luogo in cui avete effettuato le riprese abbia determinato radicalmente la forma del film?
VP: Assolutamente. Eravamo più interessati nel flusso e nella fluidità che nella fissità e nella stasi, che sono invariabilmente delle illusioni. Forse non ci si fa subito caso ma le inquadrature sono poche e molto lunghe: la mobilità estrema dell'immagine fa sì che la percezione sia quella di un'illusione di montaggio.
Come avete lavorato al sonoro?
VP: Come nel caso dell'immagine anche per il suono è successo qualcosa di simile: inizialmente abbiamo registrato ore e ore con una strumentazione più professionale, ma quando siamo passati alle GoPro il risultato era molto più intenso, quasi disturbante, specialmente quando erano all'interno dei rivestimenti di plastica. Probabilmente, molti avrebbero scartato un audio di quel tipo, ma è come in Film socialisme di Godard: le scene sulla barca sono rumorose ma c'è anche qualcosa di estremamente sensuale in quel tipo di sonoro.
Nel film c'è una sostanziale assenza di dialoghi. Si ha l'impressione che a bordo nessuno parli mai.
VP: In realtà a bordo si crea una forma di intimità molto forte, non solo tra gli uomini ma anche con la natura, il mare e tutti gli altri elementi. Ma si tratta di un'intimità, di una relazione che non viene espressa a parole – credo che, in ogni caso, l'intimità non venga mai espressa attraverso il linguaggio. Dall'intimità che stabiliscono i componenti dell'equipaggio a bordo dipende anche la loro sopravvivenza, perché se non lavorano collettivamente come una squadra mettono a repentaglio la propria vita e quella degli altri. Si tratta di mansioni ripetitive ma ognuno conosce quelle degli altri e in qualche modo le anticipa. Il lavoro che fanno è molto pericoloso ed è necessaria una grande fiducia reciproca.
LCT: Anche se si parlano poco, gli incidenti capitano proprio a causa di una scarsa comunicazione, una comunicazione che passa attraverso un continuo scambio di sguardi.
Sia Leviathan che Foreign Parts sono co-diretti. Non è una cosa che in molti cineasti scelgono di fare: come avete organizzato il lavoro a bordo? In che modo avete suddiviso le competenze?
VP: Più che altro abbiamo suddiviso le nostre incompetenze… in maniera organica, casuale e non pianificata. Ci siamo buttati nella mischia insieme, vomitando, rompendoci la schiena, precipitando in acqua, cucinando per l'equipaggio, infradiciandoci, riprendendo, arrampicandoci sull'albero maestro, guardando quello che avevamo ripreso e facendo cento brainstorming per decidere cosa riprendere, sbatacchiando di qua e di là con i pesci sul ponte…
Roger Odin dice che il cinema si sta muovendo in direzione di una massiva immersione dello spettatore nell'immagine in movimento. Il cinema di finzione sta facendo fatica ad accettarlo, ma non si può dire lo stesso del documentario, e in particolare del vostro film.
LCT: Non avevamo in mente particolari elaborazioni teoriche da sostenere, né dettami cinematografici. Abbiamo improvvisato e sperimentato nel corso del viaggio, per trovare uno stile e una forma adeguati al soggetto. Naturalmente il soggetto in questione include lo spettatore all'interno di un più ampio mondo/vita/immagine ed eravamo certamente alla ricerca di un’esperienza immersiva simile a quella cui fai riferimento citando Odin.
CINEMA AS EPILEPTIC SEIZURE
Conversation with Lucien Castaing-Taylor e Véréna Paravel
It is impossible to resist the power of Leviathan, the intensity of images hitting the viewers and swallowing them up into a drainage slot before catapulting them into an unstable and precarious material context, made of scales and offal, splinters and sewage. It is a work that doesn't pretend three-dimensionality, but finds it in the whirling frenzy of the shots, only apparently left at the mercy of the natural forces. You end up thrown into the billows, hit by streams of starfish, dumped on the deck by nets full of fish, rocking in the galley with your eyes grazing the ground, behind the legs of a seagull hunting for food. You lose your voice in the roar of the sea and the metallic creaking of the tie-rods, without any mooring or balance, far from any landmark.
A milestone in contemporary documentary, a film that defies any categorization and hides a clear and complex vision of the world (and of cinema) under an ostensible formalism. A test of resistance, of survival, which involves both the body and the eyes, demystifying life at sea once and for all; crushed by the system, individuals lose their human consistency, to end up swallowed up in a Lovecraftian universe where every possibility of control is lost, and where something much bigger and stronger governs them.
Where does the project come from? Was the original idea far from the final result?
Lucien Castaing-Taylor: Both our families have some kind of bond with fishing, navigation and the sea, and we wanted to make a film that could affect us closely but also force us to move from our home in Boston. Our project presupposed an intense and long-lasting participative observation and ethnographic research, so we chose a harbor just over an hour from Boston: the harbor of New Bedford. The legendary city of Moby Dick, New Bedford is the former whaling capital of the world and still the largest fishing port in the United States, despite some very challenging periods both in the past and in the present, due to the downfall of the fishing and textile industry. We have been filming for six months, both inside and outside the harbor, but as soon as we started heading on our fishing boats to Georges Bank – about two hundred miles from the coast – for expeditions that could last even two or three weeks, we immediately realized that we were much more interested in life at sea than in life on land. It was something we were less familiar with, and that's why we decided to focus on it without ever showing the land and also that the movie should be dark, to make the viewers lose their orientation, just like the fishermen on board.
When did you realize you neither wanted to represent the fishermen's different perspectives? With such a theme, one would expect the movie to show what they do on board…
Véréna Paravel: Just like we decided not to show the land and concentrate at the same time on the microcosm of the boat and the macrocosm of everything surrounding it, we also decided to relativize and metamorphosize the role played by the individual human actors, and place them in a wider cosmic ecology, in which they take their humble seat among all the other elements. I think fishing has been the most filmed and "romanticized" activity since the invention of photography. The result is a very limited and distorted representation of the human role at sea, a representation to which we opposed strong resistance. The sea, the air, the fish, the crustaceans, the machinery and the boat are all as important constituents of this ecosphere as humanity, and we fought for the film to reflect this coexistence.
LCT: In general, however, we prefer to start a project without having a clear idea of what we will do or what we will find. We don't bring with us screenplays or scripts, we need just ideas. But ideas that ultimately work are the outcome of our experience of the world, or of what we see through the camera. We are not interested in making movies that “say something”, we prefer to leave some degree of uncertainty, some space to chance, to an even brutal accident, to something beyond our control, our intentions and impositions.
Did you decide to utilize GoPro cameras right from the start?
LCT: No, initially we had many different cameras at our disposal, including the biggest and most conventional ones, like EX1 and EX3. However, during the trip we lost them overboard, so we started using the smaller ones.
VP: In any case, apart from the cameras, we didn't lose much, because they only contained shots of the mainland, which we would not have used anyway.
LCT: The real difference between HD cameras and GoPros is not a difference in quality, because I think that their clarity of resolution is extremely unreal, and even if they offer a bigger depth of field, there still remains some kind of flatness. On the other hand, GoPros cameras have a higher cinematic quality, and the image they produce is closer to the one you can see on film than on video: the noise, the abstraction and the figurativity they reproduce resemble the film grain, the typical abstract realism of the film camera.
VP: However, we would like to disavow the technological perspective that supposes there was no directing in the shots, as if they were purely mechanistic and we just had to place the cameras somewhere and let them do the work. Of the 130 shots of the film, only 4 were realized without the cameras being held by us or attached to the fishermen's bodies. For the shots just over the water's edge, we used GoPros attached to sticks that we held with our hands. In that case, obviously, we didn't look at what we were shooting through a viewfinder, but we imagined it, and we physically reacted to what we were experiencing while holding the sticks.
As for the shots done by the fishermen, you gave them any information or guideline?
LCT: No. We wanted their world view to emerge – just like in other moments we searched for that of the fish. We didn't want to turn them into operators, nor did we think it was necessary or right to share with them the authorship of the film.
VP: We must think that their primary concern is always to survive the journey: at any time, they could be thrown off the boat and find themselves in the open sea, among the waves. They weren't able to think about what they were filming, and this was exactly our intention, because the true power of images, their most visceral nature, was able to emerge.
LCT: Leviathan is a gesture, a physical and emotional reaction to a specific experience and condition, almost like an aesthetic translation of an epileptic seizure.
Can we say that the location of the shots radically determined the form of the movie?
VP: Absolutely. We were more interested in flow and fluidity than in fixity and steadiness, which are consistently illusions. Perhaps it's not immediately obvious, but the shots are few and very long: the extreme dynamism of the image causes a sort of illusion of montage.
How did you work on the sound?
VP: As with the images, something similar happened with the sound: we initially recorded hours and hours with a more professional device, but we realized that the sound coming from the GoPros was much more intense, almost disturbing, especially when the cameras were in their plastic case. Probably, many would have gotten rid of it, but it's like in Godard's Film socialisme: the scenes on the boat are noisy, but there's something extremely sensual about that kind of sound.
The movie is essentially dialogue-free. The viewer has the impression that no one ever speaks on board.
VP: A very strong form of intimacy actually develops on board; not only among men, but also with nature, the sea and all the other elements. But such an intimacy is not verbally expressed – in any case, I believe that intimacy is never expressed through language. On the intimacy among the crew members on board also depends their survival, because if they don't work as a team, they will undermine everyone's life. Their tasks are repetitive, but everyone knows those of his shipmates and somehow anticipates them. Their work is very dangerous and it requires a high level of mutual trust.
LCT: They don't talk much, but accidents happen precisely because of the lack of communication, a communication conveyed by a continuous exchange of looks.
Both Leviathan and Foreign Parts are co-directed. This is not a common choice among filmmakers; how did you organize the work on board? How did you split your competence?
VP: I'd rather say that we split our “incompetence”... in a systematic, casual and unplanned way. We entered the fray together, vomiting, breaking our necks, falling into the water, cooking for the crew, getting drenched, filming, climbing on the mainmast, looking at what we had filmed and doing a hundred brainstorming to decide what to film, being sloshed back and forth on the deck with the fish…
Roger Odin says that the cinema is moving toward a massive immersion of the viewer in the moving image. Fictional cinema is struggling to accept it, but the same cannot be said of the documentary, and especially of your film.
LCT: There wasn't any theoretical elaboration nor cinematographic precept that we wanted to support. We improvised and experimented throughout the journey, to find a style and a form suitable for the subject. Clearly, the subject in question includes the viewer within a larger world/life/image, and we were certainly looking for an immersive experience similar to the one you refer to by quoting Odin.