Villaggi di pietra, nella notte. Porte chiuse. Silenzio. Sui passi di una giovane donna, si entra nella Sardegna dei monti barbaricini, dove ogni sguardo è un soffio. Dove la parola è rara e gli occhi possono dire tutto. Perché rivelano un’anima.
È un mondo fisico, materiale, rude e semplice, attraversato dall’immaginario. Qui ogni cosa è frutto della fatica degli esseri umani. Ma è anche un mondo abitato dal mito, dall’aneddoto, dal ricordo che si fa leggenda.
La dimensione fisica e quella metafisica del luogo si incarnano nelle surbiles, essenze che si sprigionano da corpi in sofferenza esistenziale («anime male»), li abbandonano, si librano nell’aria e cercano altra vita per continuare a vivere.
Un tale soggetto, di evidente interesse etnografico, è affrontato da Giovanni Columbu in una pellicola che ne porta il titolo e che fonde, secondo modalità decisamente originali, gli stilemi del documentario di investigazione e quelli di un cinema fantastico totalmente immerso nella realtà.
Le domande poste dal cineasta nel corso delle conversazioni con gli abitanti si alternano a messe in scena delle presenze malefiche, con personaggi dalle movenze arcaiche, che riproducono gesti e parole appresi davanti al focolare domestico, nell’infanzia. Sono «interpretazioni» che rinviano, senza volerlo, a certo teatro popolare e contadino, come quello di Buti ripreso da Straub/Huillet in Dalla nube alla resistenza. È il teatro della condizione materiale e della sua svolta irrazionale e immaginaria, il teatro dell’isolamento, dove la solitudine pesa come una maledizione. Qui il fatto e la spiegazione si intersecano senza arrivare né al dissolvimento razionale dell’elemento magico né all’immersione totale e definitiva nell’universo fantastico-immaginario del fenomeno.
Una tale dinamica provoca – come avviene per alcune delle protagoniste del film, attraverso un semplice effetto speciale che ricorda l’ingenuità di un certo cinema dei primordi – uno sdoppiamento strutturale fra reale «reale» e reale «immaginario», ma senza che tutto questo porti a un cambiamento di registro estetico. Nel senso che, invece di passare – come spesso avviene negli horror – da parametri convenzionalmente realistici ad altri parametri convenzionalmente fantastici, incarnati nella maschera o nel make-up, qui si resta nel più assoluto realismo documentario.
Ciò provoca un effetto di disturbo psicologico ancora più potente dell’immersione globale in un universo «altro», perché lascia trasparire la presenza dell’invisibile immateriale e segreto in un mondo dove tutto si manifesta in forme visibili e materiali. Se apparentemente la maschera o l’effetto speciale dei film di genere fantastico inducono a un subitaneo effetto di sorpresa e paura, in realtà essi tranquillizzano perché riducono l’invisibile e l’immateriale a qualcosa di visibile e dunque di definibile secondo parametri razionali. Qui, invece, anche le rassicurazioni dell’anziana signora alla fine del film («Si parlava delle surbiles per spaventare i bambini e farli stare calmi») non sono affatto rassicuranti. Lo sguardo tradisce la diffidenza e basta un gesto sulla fronte di un bambino allettato per svegliarlo e fargli tornare la voglia di vivere.
Questa dialettica costante fra visibile e invisibile, fra realtà e leggenda fantastica, fra l’oggi disincantato e il passato preda di paure irrazionali, Columbu la tiene ferma per tutta la durata del film. O quasi. Perché, quando, a venti minuti dalla fine, una surbiles entra in azione dopo essersi negata di fronte alle altre donne e una madre si sdoppia per proteggere il suo bimbo dalle mire della creatura malefica, la dimensione soprannaturale prende il sopravvento. Qui il gesto delle mani delle surbiles che tolgono l’aria, il conseguente strozzamento della madre e l’arrivo di un’altra donna che spezza l’incantesimo, sono l’anticipazione di un salto verso una cerimonia muta e collettiva intorno al fuoco, in cui il ritmo delle gambe e dei piedi produce una sensazione ipnotica, arcaica, di forza invalicabile e infinita.
Intanto, altre surbiles sono prese dall’incantamento dei numeri, contano e ricontano fino a sette, sotto lo sguardo muto e stupefatto di un uomo… Insieme al cineasta, sarà l’unica presenza attiva di un maschio in un film totalmente muliebre, dove uomini dal corpo stanco abitano il silenzio del giorno e donne dall’ oscura energia governano i sussurri misteriosi della notte. Le surbiles nascono e muoiono con loro.
Luciano Barisone
Ex direttore del festival Visions du Réel di Nyon