Intervista a Yuri Ancarani

Come sei arrivato in Qatar? Quali erano i tuoi contatti?

Il Qatar ha cominciato da poco a fare i primi investimenti nel mondo dell’arte contemporanea, mettendosi a comprare a tutto spiano… Si tratta di un Paese con una ricchezza enorme. Anzi: il più ricco in assoluto in relazione al numero della propria popolazione. Un posto dove chiunque può permettersi una Lamborghini e dove se uno desidera placcare in oro la propria Harley Davidson può farlo senza pensarci due volte. Inizialmente volevo fare il ritratto della vita di uno sceicco, ma nel momento in cui mi sono avvicinato a quel mondo è emersa con forza la falconeria, che è come dire il calcio per gli italiani… Così siamo venuti a conoscenza della caccia tradizionale del falco, con gli sceicchi che compiono viaggi anche molto lunghi per andare a caccia dell’houbara, un uccello mitologico. Nel corso della ricerca, in qualche modo, l’attesa è diventata centrale, la materia stessa del film, perché sembrava non succedere niente e allo stesso tempo tutto era in movimento, in divenire…

Mi sembra che tu prediliga il momento dell’attesa, per indagarne la sua possibile rappresentazione. In fondo anche il precedente San Siro era costruito come una lunga attesa, un crescendo verso un finale che non viene mostrato.

Certo. Soprattutto mi piace che il film abbia una tensione interna, implicita, che le immagini portino altrove rispetto a ciò che rappresentano in maniera diretta. In questo caso, dico per semplificare che The Challenge è un film sulle “olimpiadi dei falchi” ma in realtà c’è molto di più e credo che il senso profondo del film risieda altrove. Forse anche perché lavoravamo a un film che voleva essere qualcos’altro e poi ci siamo accorti che quello che stavamo vivendo era il film. Ovvero: è diventato un film sulle persone che ci avrebbero dovuto condurre da altre persone, persone che non avremmo mai raggiunto. La guida ci disse subito che nel deserto non ci saremmo potuti avvicinare alle tende, non avremmo neanche potuto fotografarle… Ecco perché la sequenza con gli occidentali che passano in groppa a un cammello è una delle scene chiave del film: gli occidentali, i turisti si fermano lì su quella soglia. Io ero deciso ad andare oltre.

Come hai fatto a superare questa soglia?

Un grande lavoro di relazione, atto a instaurare un rapporto di fiducia reciproca. Ho vissuto a lungo con loro, imparando i loro usi e condividendone i gesti. Anche da parte loro c’era la volontà di condividere usanze e costumi, e per me è stato molto importante, perché non parlo l’inglese, né tanto meno l’arabo…

C’è da chiedersi se l’idea di filmare il deserto ti abbia dato dei problemi o se tu l’abbia vissuta come una sfida, dal momento che sei abituato a lavorare su spazi nei quali l’architettura domina, crea delle coordinate, delle simmetrie… Il deserto può anche essere spaesante, no?

Anzi! Avrei voluto filmarlo di più! Ma avevo delle priorità di struttura, perché sapevo che le persone che incontravo oggi c’erano e domani forse non più, e ciò mi faceva disperare. I paesaggi, quindi, sono stati messi in secondo piano e ho inserito tutti quelli che ho filmato, perché sentivo che avrebbero dato un respiro importante al film. Però è vero che lavoro molto sulle geometrie e se mi trovo davanti geometrie preesistenti esse comandano, benché all’interno di una composizione dell’immagine che può essere varia, diversa. C’è poi un ulteriore livello geometrico: quello che si crea tra un’inquadratura e l’altra, qualcosa di cui magari si accorgono in pochi, come – per farti l’esempio più evidente all’interno di questo film – il passaggio dalla notte al giorno, così netto, secco.

Ci sono sequenze molto particolari, come quella della notte all’accampamento, abbastanza nuova all’interno della tua produzione, ma è inevitabile chiederti qualcosa su quella finale, con la soggettiva del falco…

La soggettiva del falco è fondamentale, perché per quanto si possa cercare di entrare nel mondo di quella gente, e sforzarsi di conoscere la loro cultura, più di tanto non si può fare, così, alla fine, mi sono chiesto: il falco come vedrà tutto questo? Allora ho cercato di mostrare anche il suo punto di vista, dove lo sguardo non è più quello dello spettatore, il mio o di un altro essere umano.